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TERRAVECCHIA: UNA TERRAZZA SULL’AZZURRO JONICO

Monografia di un piccolo centro calabrese, tra attese e abbandoni

 di Assunta Scorpiniti

Dedico agli amici di Terravecchia (CS) e quanti amano i piccoli luoghi questa monografia che ho scritto per la rivista “Spola” nel febbraio 2007, quando insegnavo nella piccola scuola del paese. Ci sono stati avvicendamenti dei ruoli e perdita di presenze, ma il racconto resta attuale, come le riflessioni. A.S.

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  Quando appare tra le dolci colline della fascia presilana, Terravecchia sembra avvolto da un malinconico velo d’ombra, in questa stagione in cui lievi sfumature ravvivano il fogliame degli ulivi, cosparsi su tutta la superficie visibile, nel percorso in salita.

Fra poco ci saranno la «spina santa» e le ginestre, a riempire del loro colore luminoso l’ora mattutina in cui è un continuo incrociare vetture in discesa, sul tratto di Statale 108 Ter., che collega la costa all’entroterra. Sono insegnanti, commessi, dipendenti statali, impiegati nel vicino centro litoraneo di Cariati, l’ultimo della provincia cosentina, distante solo otto chilometri, o in altre località del Basso Jonio.

  Gli agricoltori, che lavorano nelle loro aziende (una decina in tutto), sono già scesi poco dopo l’alba lungo la strada comunale che collega l’abitato con le campagne collinari coltivate ad uliveti e i terreni pianeggianti intorno al letto del fiume Nicà, in contrada Vigne, dove, ad onor del nome, ci sono tanti poderi coltivati a viti.

  Mattiniere, ma non troppo, sono pure le donne con la borsa della spesa, anziane, come gli uomini con «coppola» e bastone i quali, muovendo dalle case di periferia o dalle palazzine popolari, raggiungono, per via Santa Venere, il centro del borgo.

  E’ l’immagine di un paese sospeso tra mobilità dell’oggi e la stanchezza di cose antiche che resistono alle trasformazioni sociali e al trascorrere inesorabile del ricambio generazionale. E la strada, che, all’epoca delle incursioni saracene, costituiva il percorso verso la salvezza, quando non era certo d’asfalto, è simbolo del legame col mondo, ma anche tra presente e passato, di un paese a 472 metri sul livello del mare, che ha conosciuto civiltà ed isolamento, compattezza e abbandoni, e sogni, tanti, di sviluppo, non ancora tradotti in realtà.

Il paesaggio incorniciato in panorami ineguagliabili

 

Ciò che, del resto, accomuna tanti paesi interni, non solo calabresi. Non mancano, tuttavia, caratteristiche «fisiche» in senso stretto, ma anche storiche, identitarie e di relazione che rendono questo luogo, in quanto tale, davvero unico.

  Il nome, ad esempio, rivela l’origine medioevale. Qualche studioso lo fa derivare dalla torre di avvistamento, la «Torre vecchia», peraltro individuata nel suo sito, che lo sovrastava; i più, invece, affermano che esso proviene da «Terra dei vecchi», perché durante le invasioni turchesche vi trovavano rifugio gli anziani.

  Poi c’è la collocazione, in un paesaggio mozzafiato.

  Il paese, dal cocuzzolo su cui sorge, si protende, quasi a toccarlo, sull’azzurro sconfinato dell’orizzonte jonico, «mediato» dalla Cattedrale di Cariati che, col solenne profilo, sembra ergersi a baluardo.

Una vera e propria terrazza che consente alla vista di seguire la linea costiera da Punta Alice al Golfo di Taranto o di spaziare, sull’opposto versante, attraverso alture disseminate di piccoli paesi, che si estendono fino alla Sila Greca, nelle sue estreme appendici orientali.

  In tale scenario, si coglie la varietà e la bellezza dell’ambiente naturale in cui Terravecchia è immerso, col suo colle di case aggrappate. Oltre agli uliveti alternati a tratti cespugliosi, che rivestono le colline degradanti fino al mare, il suo territorio presenta una ricca vegetazione, dominata dalla macchia mediterranea, in cui si snodano i percorsi della transumanza. Proseguendo verso Sud-Ovest, sulla strada che conduce a Scala Coeli, altro centro medioevale, s’incontra la splendida pineta di Littirena, realizzata dalla competente Comunità Montana su un sito di antichi pascoli, e successivamente attrezzata con area pic-nic.

 Addentrandosi e avanzando in salita, fino alle pendici della timpa Laramettara, che con i suoi 478 metri s.l.m. è il punto più alto, ci si immerge nel rigoglioso bosco del Verro, con i sentieri ombreggiati da querce secolari.

 Il cammino è reso ancora più affascinante dal fatto che, tra le fronde e da piccoli promontori,  si può intravedere il mare Jonio o ammirare l’intero corso del fiume Nicà, che, secondo lo storico greco Tucidide, segnava il confine tra i territori delle città magnogreche di Kroton e Thurii  nel 412 a. C., quando il nome era Hylias.

   Terra «di bellezza e di rovina», dunque, i per tanti tesori che, nel proverbiale contrasto delle terre calabresi, convivono con la tendenza a fuggirne, determinando lo spopolamento. Basterebbe l’intelligenza dell’offerta e la sensibilità di chi sa goderne senza cercare paradisi negli oceani; essere, quindi, persuasi ed entusiasti di posti che, come questo, consentono un agevole itinerario tra la quiete dei monti e l’azzurro del mare. Trekking, campeggi, visite guidate ed escursioni continuano a restare attività produttive e fattori di sviluppo «potenziali», per gente del luogo forse inconsapevole e in perenne attesa, oltre che, per gli appassionati, tante occasioni turistiche mancate.

  Fuori dalle considerazioni e restando agli elementi paesaggistici, un ultimo accenno va ai luoghi ameni delle sorgenti naturali, identificate col toponimo del loro sito, e cioè Papanicola, a Jisterna, Taverza, Carpineto, Acquanova, con le acque incanalate per dissetare campi ed orti o fatte defluire in vasche di raccolta per riempire gli abbeveratoi. La più frequentata dagli abitanti di Terravecchia e dintorni, per l’acqua pura e ricca di proprietà benefiche è la sorgente di Santa Maria, che si trova sul sentiero della Nucicchia, presso il Santuario della Madonna del Carmine.

Il singolare intreccio di culti alla festa patronale

 E’ intorno a questa chiesetta rurale, costruita nel luogo di un antico oratorio, su un largo ricavato dallo sbancamento di un costone di roccia, che l’identità culturale del popolo di Terravecchia trova la sua più autentica espressione. La devozione, la leggenda, la tradizione e il costume che vi sono concentrati, sono restituiti con puntualità e amore da Mauro Santoro, di professione imprenditore nel settore dei serramenti in metallo e studioso per passione.

  Pubblicando le sue ricerche in una serie di volumi, Santoro ha, infatti, dato al paese l’onore della sua prima storia scritta e molte note sulla società e la cultura del luogo. «Se si chiedesse ad un Terravecchiese, anche se ormai lontano dal proprio paese, qual è la cosa più preziosa e più bella di Terravecchia, senza esitare direbbe che è la festa del Martedì dopo Pasqua, che si protrae per cinque giorni ed in cui si festeggia la Madonna del Carmine». Lo afferma in uno dei suoi libri, riferendo della devozione per la Beata Vergine del Monte Carmelo, patrona e protettrice del centro presilano, da sempre veneratissima anche dagli emigrati; basti pensare che, tuttora, i loro figli e nipoti mai stati nel paese d’origine, raccolgono tra le comunità terravecchiesi offerte per la festa.

 Manifestazioni del genere non mancano, di certo, dentro e fuori la Calabria; fin qui, dunque, nulla di eccezionale. L’aspetto singolare è, invece, connaturato al culto, con antichissime radici nel luogo e il primato dell’importanza assoluta, nel contesto degli eventi della comunità. Scrive, infatti, Santoro: «Gli anziani raccontano che questa tradizione è nata per ricordare un evento eccezionale, accaduto in Santa Maria, località dov’è situato il santuario dedicato alla Vergine de Monte Carmelo. Si narra che in quei luoghi vi fosse un drago a forma di serpente, che terrorizzava la popolazione del paese, tanto che, periodicamente, il mostro rapiva e sbranava i fanciulli della contrada (…). Nel martedì dopo Pasqua la Vergine Maria, con in braccio Gesù Bambino, invocata dalle preghiere dei fedeli di Terravecchia, intervenne con la sua potenza celeste, apparve in cielo e con una lancia squarciò il ventre del serpente liberando l’ultima vittima» (la scena si può vedere raffigurata su una tela custodita nella chiesa).

  Luigi Renzo, nel rilevare l’insolita presenza del drago, che richiama il culto di San Giorgio accanto a quello della Madonna del Carmine, legato, quest’ultimo, per tradizione, alle «anime purganti», sottolinea la chiara «unificazione del culto mariano con quello sangiorgesco», compiuta proprio dal popolo terravecchiese, al di là di ogni ipotesi di plausibilità storica, con la credenza nota fin dal XIII secolo.

 Al contenuto della leggenda, cara alla memoria e alla fede, risale il motivo dell’erezione della chiesetta, dove, nel giorno della ricorrenza dell’evento, viene portato il simulacro della Madonna, prelevato dalla chiesa parrocchiale di S. Pietro in Vincoli, dopo un percorso a piedi di circa 2 chilometri, fino al sentiero scosceso che termina con una curiosa forma di «M» (“in onore a Maria…”), davanti al piccolo tempio.

Il pellegrinaggio, a leggere il testo di Santoro, fa pensare a Polsi e un po’al racconto che ne ha fatto Alvaro, ma dato che è imminente, c’è l’impegno a viverlo di persona. Per ora basti sapere che, per rendere omaggio alla Vergine «trionfatrice in quei luoghi», il tragitto continua anche nei giorni seguenti, per terminare, il sabato, con la scampagnata collettiva nei prati circostanti (non c’è l’usanza della «pasquetta» del lunedì dell’Angelo), che rinsalda l’appartenenza alla comunità con la devozione alla Madre e le tentazioni della gastronomia tipica, esaltata da mille sapori e guarnita, nell’occasione, con gli immancabili cullurelli, i dolci delle feste e delle sagre d’estate. La domenica, con altrettanta partecipazione, si svolge la processione del rientro.

 

 Uno scatto di dignità per affermare la propria storia

  Terravecchia non ha il suo «doppio» lungo la costa, poiché a lungo è stato unito alle sorti della vicina Cariati, di cui è stato casale fino a quando, nel 1921, l’Amministrazione è diventata autonoma. Della comune storia antica, che nel IV–III secolo a. C., ha visto il territorio occupato dalle popolazioni brettie, è testimonianza il parco archeologico di Pruìia, che, secondo Rohlfs, vuol dire «mattino». Si trova, infatti, a 2 chilometri a Est del paese, dov’è stato creato con finanziamento del P.O.R. 2000/2006, nel contesto della realizzazione Parco Archeologico della Sila Jonica.

  I resti della cinta muraria, le tracce di edifici, i reperti rinvenuti, svelano Pruìia quale postazione strategica, nel sistema di fortificazioni realizzate dal popolo «fiero e guerriero» che abitò la Sibaritide del tempo; oggi, è zona archeologica di grande interesse.

  Pure degni d’attenzione, per come sono integrati nell’ambiente, sono i casali con gli antichi frantoi e gli agglomerati rurali sparsi nella campagna; da realtà produttive e vitali, oggi solo fantasmi di una civiltà contadina soppiantata da un’altra concezione della vita.

  Infine, il centro urbano: nuove strutture abitative nella parte esterna e poi il borgo, con le emergenze monumentali (l’antica chiesa dell’Addolorata, oltre a San Pietro in Vincoli) e la sua Piazza del Popolo, dove esiste e vegeta, con l’imponenza delle sue dimensioni e della sua storia, un olmo secolare: è l’«albero della libertà», tra i tanti che furono innalzati un po’ ovunque, in Calabria, all’indomani della costituzione della Repubblica Partenopea, nel gennaio del 1799, poi abbattuti o bruciati dalla reazione sanfedista che, però, non toccò il piccolo centro collinare.

  Ora gli abitanti sono in agitazione, perché, per l’ennesima volta, la stampa riporta  la notizia che l’ultimo esemplare rimasto in Italia è l’albero della libertà di Montepaone. Terravecchia non ci sta e, oltre ogni stereotipo di arretratezza e chiusura, vuole rivendicare la propria storia attraverso un simbolo dell’identità, reso tale dal fatto che dimora nel suo cuore antico, luogo di «storica» aggregazione, di eventi importanti per la comunità e tuttora carissimo agli anziani del paese che ogni giorno, in tarda mattinata, si ritrovano all’ombra della grande pianta.

 

 

 

Il paese torna «terra dei vecchi», nel silenzio di case disabitate

  A quell’ora, il centro storico sembra abitato solo dai gatti, che passeggiano indisturbati tra le viuzze che si perdono nel labirinto delle tipiche case. Tra la maggior parte delle abitazioni, chiuse fino alla prossima estate, domina il silenzio interrotto solo dai passi affaticati di qualche coppia di anziani con la borsa della spesa.

  Un giro tra i rioni, da S. Cataldo, alla Jureca (ex quartiere degli ebrei), alle Croci, al Cozzarello, a Verdò, alla Minalda al Semàfuru, dov’era un segnalatore per le vedette militari, mostra gli effetti della «fuga collettiva», secondo la definizione di Vito Teti, che parla anche di «abbandono contemporaneo», in riferimento agli esodi più recenti.

  Nella quiete «inquietante» di un borgo addormentato, tante soglie deserte o, al passaggio, non frequente, di qualcuno, animate dalla curiosità lenta di abitanti con la testa bianca, che sembrano far rivivere il tempo in cui quel colle era «terra dei vecchi» fuggiti alla furia dei pirati venuti dal mare. Non mancano case restaurate con cura, a rappresentare una ferita sempre aperta, più che la nostalgia o la scelta di progredire nella Calabria altrove rifondata.

  Quei muri ne custodiscono le storie; sarebbe interessante poter raccontare anche queste, come quella di Saverio Nucaro, emigrato nel 1970 e incontrato nel 1996 nella città tedesca di Achern, che diceva: «A Natale, quando sono alla frontiera di Chiasso, sento salire da Terravecchia il profumo dei cappucci stufati»

  In Piazza della Misericordia, fra l’unico bar e la pensilina degli autobus di linea, altri attempati abitanti (gli anziani a Terravecchia sono il 90% della popolazione) consumano giornate immobili; il passatempo è guardare il crocevia attraversato solo da qualche macchina e verso il mare, con l’occhio distante di un’indole contadina e i pensieri rivolti a un tempo, forse migliore, ma lontano, in cui il paese era animato da voci, grida, chiacchiere.

«Non c’è nessuno a Terravecchia», dicono spesso, e fra loro ci sono alcuni dei protagonisti delle prime emigrazioni in Germania e Belgio, rimpatriati al termine dell’attività lavorativa.

  Ai grandi esodi migratori, prima in America e poi in Europa, hanno, infatti, partecipato moltissimi abitanti del piccolo centro dello Jonio cosentino. Negli ultimi anni sono riprese in modo massiccio le partenze, oltre che per la Germania, per il Centro-Nord dell’Italia e sempre più spesso sono gli anziani genitori e nonni a raggiungere, per lunghi periodi, figli e nipoti residenti lontano.

  In circa 10 anni la popolazione è calata da circa 1500 abitanti a non più di 970 iscritti all’anagrafe, ma chi conosce bene la realtà di Terravecchia, sa che i residenti «effettivi» non arrivano a 600. L’ufficialità di una recente statistica comunale, consegna un altro dato, sintomo di un mondo forse avviato al dissolvimento: su 588 abitazioni, solo 311 sono occupate dai residenti nell’arco di 12 mesi.

  Anche Terravecchia, dunque, a rischio di chiusura; come altri paesi della Calabria, in pericolo di «spopolamento ed estinzione», secondo Legautonomie che ha presentato in termini di grido d’allarme il rapporto 2005 sullo stato delle autonomie locali calabresi. Secondo l’Associazione, in queste comunità «c’è uno stretto legame tra trend demografico, qualità dei servizi, difficoltà nelle finanze locali». Per dirla in modo più semplice, se l’orientamento demografico dovesse rimanere inalterato (anche per la mancanza di risorse e infrastrutture necessarie a qualunque progresso economico e sociale), in trent’anni verrebbe naturalmente ad estinguersi la popolazione di sei comuni calabresi fra cui proprio Terravecchia (gli altri sono Campana e Nocara, nel cosentino, a Marcedusa e Centrache, in provincia di Catanzaro, e Staiti nel territorio di Reggio Calabria).

 

 

 Utopie e disincanto della gente del luogo

    A fronte, non può esserci che la riflessione di chi Terravecchia ama e «abita» e una visuale di più sguardi che s’incrociano. Si tratta di considerazioni condivise anche da chi scrive, per la frequentazione intensa, del luogo e degli abitanti, da cui questo racconto scaturisce.

 L’interrogativo è sul senso da dare al luogo, con le sue risorse e i suoi valori; sui  fattori all’origine dell’abbandono più recente; su una possibile presa di coscienza; sulla ricognizione delle forze e delle esperienze positive; sui percorsi da condividere con i paesi del territorio.

  Il signor Pietro Felice ha superato gli ottant’anni, ma non ha perso il piglio e la concretezza del suo mestiere.

A Terravecchia è ancora un’istituzione, l’emporio noto come il negozio di donna Chicchina, sua moglie, al piano terra del palazzotto di famiglia, situato su un poggio di case un po’ mute, un po’ in rovina. Non stupisce se il bussare alla porta dei due coniugi, desti l’attenzione di alcuni immigrati dell’Est, che alloggiano in quelle costruzioni. «Lavorano nelle aziende agricole dei terravecchiesi che fatica non ne vogliono…», commenta l’anziano uomo, aprendo la vetrina dell’esercizio «che non può chiudere, dopo tante tempeste, malanòve e belle soddisfazioni». E’ un po’contrariato, per aver ricevuto dal fornitore una partita di bretelle fantasia e non le solite, lisce: «Come se non sapessero che la mia clientela è fatta solo di vecchi, che non prendono la macchina per andare a comprare a Cariati».

  Il target, infatti, è percepibile dalla merce in bella vista: ampi foulard a tinte cupe, la gamma di bastoni, pagliette, cappelli, perfino i bottoni neri da appuntare, per lutto, sulla giacca, tra pile di stoffa colorata, valigie anacronistiche, filo a rocchetti, contenitori del borotalco, capi di biancheria e d’abbigliamento; questi ultimi, esemplari originali della moda beat o del bon ton anni Settanta, oggi vanno a ruba tra i cosiddetti vip che li consegnano allo stile redivivo chiamato vintage. «Ci siamo da 46 anni, tranne alimentari e scarpe, vendiamo tutto quello che c’è sulla terra». E quello che, nel lungo arco di tempo, non è stato smaltito, è ancora lì.

  Fin oltre la metà degli anni Settanta, era quel magazzino a dettare la moda e indicare i (pochi) bisogni consumistici di quel piccolo mondo: «C’erano circa 170 mila lire che arrivavano in ogni casa dalla Germania, si facevano i corredi, si forniva l’occorrente per ogni evento della vita». Ora è tutto finito. C’è persino il «coprifuoco» del crepuscolo, quando già non circola nessuno là dove si vive «di aria pura» e l’unica risorsa «è la pensione o la decisione di partire».

  Dopo gli ultimi tornanti della Statale, oltrepassati i quali si giunge in paese, c’è, invece, l’«Orizzonte», un bar-ristorante che, lo dice il nome, meriterebbe solo per come, da quella postazione privilegiata, le pareti a vetri catturano la magnifica veduta panoramica. Lo gestiscono Rosamaria Sposato, 36 anni, e il marito trentottenne Pietro Santoro, con l’aiuto dei due figli. Prima di rilevarlo dai vecchi conduttori, con l’aiuto economico dei genitori emigrati da decenni a Dortmund, in Germania, il marito lavorava come amministratore a Corigliano Calabro, in una rivendita d’automobili: «Non si è voluto mai trasferire, la sera preferiva mettersi in macchina e tornare a Terravecchia». Motivato dallo sconfinato amore per il paese, Pietro ha avviato la nuova attività; dopo essersi qualificata come cuoca, lo ha seguito la moglie.

  I primi anni, racconta Rosamaria, sono stati un boom: «Facevamo matrimoni, battesimi, feste di ogni tipo; avevamo una clientela vasta, che arrivava da tutto il territorio e in estate non riuscivamo a far fronte alle richieste». Poi, gradualmente è iniziato il calo: la ripresa dell’emigrazione, nuove famiglie che non si formano, poche comunioni e cresime, inoltre ora «c’è la mentalità che per ogni cosa si deve andare fuori». La donna ha messo il locale a disposizione di chi vuole organizzare eventi culturali, magari incontri per le donne rimaste in paese («quelle che hanno studiato vivono altrove»); nulla da fare: «Solo qualcosa all’inizio; ho detto alle compaesane: ci siete? Ma vogliono stare a casa, hanno paura delle critiche». Non è una situazione felice: «A volte non si sa con chi parlare, manca la cultura del confronto».

  Dispiace, ma è inevitabile, iniziare a pensare di chiudere e partire: «Nella scorsa settimana, però, abbiamo ospitato una coppia di tedeschi; non hanno chiesto altro che pasta al pomodoro e poterla mangiare sulla veranda, al sole».

  Mauro è il primogenito, ha 16 anni e frequenta il liceo; a suo avviso, la presenza di quei due stranieri conferma il valore del turismo come grande opportunità «ma c’è bisogno di servizi, professionalità, non d’improvvisazione, delle cose di tutti che non sono di nessuno, della mentalità del tira a campare». Racconta l’abbandono del paese con un dato di fatto giovanile: «Per una partita di calcetto non arriviamo a 10 persone e dobbiamo chiamare i ragazzini di 12 anni». Dice che tutti non vedono l’ora di andarsene e lui farà lo stesso, dopo l’università, anche se dichiara di sentire forte il legame delle radici:«Per restare dovremmo individuare una ragione che ci convinca». Ma per ora non ne vede: «Se non scendi a Cariati non fai niente, la corriera ha solo due corse di giorno e il sabato sera i genitori a turno devono portarci e venire a riprenderci».

   Anno del Signore 2007; la strada che una volta salvava, oggi è un impedimento. Mauro prosegue: «C’è un campo sportivo non omologato, un centro culturale che apre solo nelle feste, la biblioteca non si sa; soprattutto, c’è la politica che limita e divide». Partire, dunque, senza scampo e magari tornare per le ferie, come tanti emigrati. Ma, almeno, si potrà costruire con loro la «grande» Calabria? «Non credo, a loro piace darci consigli gratis, qui non investono se non per sistemare le loro case per l’estate». Qualcuno, però, la ragione per restare potrebbe averla; secondo Mauro sono i giovani che lavorano nelle aziende agricole di famiglia, «gli unici ad avere lavoro, disponibilità economica per confrontarsi col mondo, in occasione delle fiere, possibilità di mettere a frutto l’insegnamento dei padri per costruire l’avvenire».

L’analisi, senza dubbio accorta, è approvata, oltre l’evidente distacco generazionale, da «nonno» Saverio Liguori il quale, con la saggezza dei suoi 80 anni e l’autorità dell’esperienza maturata coltivando la terra e conducendo frantoi oleari («lavoro da quando sono nato!») è più che convinto della ragione dello spopolamento: «La maggior parte dei giovani non capisce che è l’agricoltura la cosa più importante per lo sviluppo del paese, com’è sempre stato, perché tutto quello che occorre c’è».

E’ presto detto: clima «giusto», tanta terra buona, una tradizione di colture (specie di viti e olive) che inizia a incanalarsi in processi di trasformazione. C’è anche, tramandata attraverso le generazioni, la sapienza dell’arte, e, dice il nonno, oggi pure il computer, «ma quello che manca è la passione».

 

 

 

 

Impegno per una nuova mentalità, con la coscienza di doveri e diritti

  In genere il sindaco e il parroco sono punti di riferimento di una comunità, specie se piccola, come Terravecchia, dove pare manchi davvero la consapevolezza di quello che c’è, il gusto della conquista, un modo di pensare che vada oltre il concetto d’assistenza.

  Don Pasquale Madeo e Antonio Victorio Cristaldi hanno entrambi meno di quarant’anni; sarà per questo che vivono sulla propria pelle l’ansia dello spopolamento, che combattono cercando di condurre fedeli e concittadini oltre la rassegnazione e l’abitudine dell’apatia.

  Il giovane prete è erede di quel don Agostino Tursi che un giorno fece accorrere la gente suonando le campane a morto e, a quanti domandavano chi fosse deceduto, diceva: «è morta la fede dei terravecchiesi che vengono in chiesa solo per i funerali».

  Al di là del fatto religioso, don Pasquale afferma che, come allora, Terravecchia ha una società «fondamentalmente sana», i valori si trasmettono, non ci sono forme di povertà o di degrado «se non pochi casi». Il reddito è garantito in gran parte dalle pensioni degli anziani, che, spesso, sono un incentivo per i giovani «fino alle superiori», poi «non li vediamo più». Dal suo osservatorio lo spopolamento è determinato, oltre che dalla mancanza di lavoro, da un forte «pessimismo verso il luogo» e dall’attitudine all’individualismo, che impedisce di pensare in termini «collettivi», soprattutto in merito all’utilizzo delle risorse, «che potrebbero far rimettere in moto il paese».

  L’idea che il parroco sta cercando di far passare, della cooperazione e dell’associazionismo sul modello della Locride, fa fatica ad attecchire, specie tra i giovani che, nonostante la voglia di lavorare, finiscono per essere «fomentati» dalle famiglie a cercare lavori possibilmente a stipendio, giudicati migliori e, quindi, a partire. «C’è ancora parecchio da lavorare, soprattutto sotto l’aspetto culturale e formativo, anche per superare la “dipendenza” da Cariati, verso cui c’è stata una vera e propria “fuga” e che, in realtà, non è stato modello di grande evoluzione».

  Con Cariati, però, il sindaco Cristaldi vuole combattere una battaglia di progresso; egli è, infatti, uno dei più accaniti sostenitori del Comitato ivi costituito, promotore del passaggio, con i paesi circostanti, alla provincia di Crotone: «Siamo periferia della periferia, Cosenza ignora i paesi del basso Jonio, sia per le piccole che per le grandi cose». A suo avviso c’è una connessione tra spopolamento e abbandono istituzionale che toglie incentivi allo sviluppo: «Ci basterebbe anche solo veder migliorare le infrastrutture». Forse in una provincia più piccola (Cosenza ha 155 comuni) si potrebbe più facilmente discutere del problema delle aree interne e dello spopolamento, e, magari, ragionare di un «sistema paesi», dopo i vari Pit e Piar «sciolti come neve al sole».

  La cosa che lo avvilisce è veder partire le persone più valide del paese, che si affermano fuori regione. In tema di potenzialità, ritorna l’adagio: risorse paesaggistiche, agricoltura, cooperazione, ma non chiude gli occhi di fronte all’atteggiamento passivo, soprattutto da parte dei più giovani, spesso scoraggiati da difficoltà come il difficile accesso al sistema creditizio.

  Lui, però, non demorde, ed elenca iniziative: una centrale eolica per incamerare introiti, una casa per anziani per rispondere a un bisogno sociale e creare occupazione. Ad entusiasmarlo è soprattutto la stagione estiva, in cui il paese sembra rivivere, con quasi quattromila presenze fra turismo, ritorni e amanti «dei piccoli luoghi» che non vogliono il caos dei centri costieri. «Abbiamo iniziato con amici e conoscenti dei terravecchiesi in Italia e nel mondo; ora tanti concittadini utilizzano internet per offrire case in affitto».

  Nel 2002 è arrivata una coppia di ingegneri tedeschi di Munster, che hanno eletto Terravecchia a luogo ideale per celebrare il loro matrimonio e per la luna di miele.

  Si può pensare a un turismo invernale, anche per la vicinanza con la Sila, ma occorrerebbe offrire abitazioni decorose e riscaldate, soprattutto, cambiare mentalità e imparare a usare gli strumenti che fanno progredire.

  Perché, è vero che lo Stato fa poco, ma con questo, dice il Sindaco, si convive, ognuno fa quello che vuole e come vuole. A suo parere, prima di qualunque iniziativa, pubblica o privata, si deve avere ben definito il margine tra doveri e diritti. «In questo – commenta infine – paghiamo per la scomparsa dei partiti, del bagaglio culturale che per tanti giovani è stata la scuola della politica».

 

La piccola scuola

alimenta i fermenti di una risurrezione possibile

  La scuola, in senso letterale, è all’ingresso della parte antica, dove sorge anche il municipio; è un edificio imponente, ma per pochi alunni, suddivisi in pluriclassi: 14 della primaria e solo 7 della scuola dell’infanzia. Sono i figli di dipendenti comunali, degli agricoltori, dei titolari dei pochi servizi commerciali.

  In questo periodo tutti partecipano al rito dell’uccisione del maiale; il piccolo Eugenio, narratore nato, a soli 3 anni e mezzo lo sa descrivere nei dettagli, come sa raccontare della campagna e della sua mucca, che, nel prato, ha partorito un vitellino, e lui, col suo parrino, ha preparato un recinto per non farlo scappare.

  Le aule scolastiche sono state piene fino a una decina d’anni fa; al piano di sopra c’era la media inferiore, oggi chiusa per mancanza d’iscritti e i pochi studenti del paese vanno ogni giorno a Cariati con lo scuolabus.

  Eppure, da qualche tempo, in quella scuola si sta facendo un’opera importante, sotto il profilo didattico e culturale: «Siamo partiti dal considerare come risorsa educativa la prevalenza di anziani», spiegano gli insegnanti, intenzionati a valorizzarli come «custodi del patrimonio di cultura e tradizioni del paese, da non disperdere». Tante, le occasioni d’incontro che si creano per attingere alla fonte preziosa della memoria e delle esperienze che fanno la storia e l’identità del popolo terravecchiese.

Nel progetto didattico non mancano, infatti, le visite ai luoghi, le indagini e le iniziative rivolte a conoscere le consuetudini del lavoro, i riti della fede, perfino le tradizioni gastronomiche; sempre con la guida, la consulenza, la partecipazione di qualche nonno. Perché il principale obiettivo, dicono ancora i docenti, è quello di portare gli alunni a conoscere di più il paese, ad amarlo e, magari, da grandi, a non abbandonarlo completamente.

 Quando i bambini, con le maestre, vanno per il paese, dappertutto sbucano anziani a guardarli, affacciati alle finestre, sugli usci, o che escono in strada: «Quantu sìti belli, buttiamo i confetti, abbenirìca, abbenirìca», è la formula pronunciata fora malocchio, con chiaro intento propiziatorio.

  Terravecchia fondata, abbandonata, dilatata, riformata, «conserva la sua storia, continua ad avere una sua vita». Può rinascere, per questo non vuole chiudere.  

 

Cariati, 15 febbraio 2007                                           Assunta Scorpiniti

 

Bibliografia di riferimento

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RENZO L. Culti popolari in Calabria, Cosenza, Progetto 2000, 1993.

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SANTORO M., Terravecchia. Lineamenti di storia e di vita amministrativa, Cariati, Sansone, 1998.

SCORPINITI A., Cariati e la sua gente, Cosenza, Progetto 2000, 2002.

SCORPINITI A., Calabria altrove, Cosenza, Progetto 2000, 2005.

TALIANO G. A. (a cura di), Il Parco Archeologico di Cariati e Terravecchia, Settingiano, Ts, 2005

TETI V., Il senso dei luoghi, Roma, Donzelli, 2004.